I giorni del Triduo Pasquale sono ancor’oggi testimoni di usanze e tradizioni le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

Una delle consuetudini di maggior impatto per le nostre comunità è quella dell’astensione dal suono delle campane dalla sera del giovedì santo fino alla notte di Pasqua. I rintocchi dei bronzi collocati in cima ai campanili sono un segno sempre gioioso anche se utilizzato per comunicare eventi tristi. E fin dai primissimi tempi del loro utilizzo vi è stata la necessità di interromperne il suono nei giorni nei quali si rivive la Passione e la Morte di Gesù Cristo, fino alla sua Resurrezione.
Così, dal Gloria della Messa in Coena Domini, che ricorda l’ultima cena di Gesù con gli Apostoli – preludio della Passione – fino al Gloria della Veglia Pasquale, nella quale si rivive la sua Risurrezione quale evento culminante di tutta la storia della Salvezza, le campane vengono ancor’oggi legate in segno di lutto.

Molte persone ricordano anche le consuetudini annesse al momento nel quale le campane venivano slegate: la benedizione dell’acqua e la benedizione delle uova. Dal XVI secolo fino al 1956 la celebrazione della Veglia Pasquale veniva anticipata al mattino del sabato: una consuetudine dettata non tanto dall’esigenza di evitare di far uscire di casa i fedeli con l’oscurità della notte (poco raccomandabile a quel tempo), ma da un concetto teologico legato alla discesa di Cristo agli inferi, un evento che non attribuisce al Messia l’esperienza della morte, ma ne anticipa il trionfo della Risurrezione.

Ed il ritorno del suono delle campane al canto del Christus Dominus Resurrexit era accompagnato da gioia ed euforia, dal suono di ogni genere di campanelli e persino dal percuotere degli zoccoli sui banchi della chiesa (si racconta che questo momento era anche occasione per i ragazzi di mettere in pratica, ovviamente senza farsi notare, lo scherzo pasquale di inchiodare al banco le gonne delle ragazze). Grazie al ritorno del suono delle campane, anche per chi non era presente alla celebrazione, il momento era accolto da entusiasmo. Si diceva che durante la scampanata di Pasqua tutta l’acqua si poteva considerare benedetta, quindi tutti accorrevano alle trombe o ai fossi per riempire secchi e mastagni o, semplicemente, per bagnarsi gli occhi o per innaffiare le uova destinate a diventare i ciàpi da Pàsquå.

Ma è noto che il suono delle campane ha lo scopo primario di scandire gli appuntamenti religiosi e civili della comunità. Da qui l’invenzione di uno strumento musicale alternativo (a Rivolta d’Adda chiamato dròlå – in altri luoghi anche trabàccola o tràccola), che, grazie al suono sgraziato e per nulla armonico, permette di segnalare gli eventi di interesse anche durante il Triduo Pasquale, senza snaturarne il doveroso clima mesto e raccolto.

La dròlå è composta da una tavola di legno – sulla quale sono montate delle maniglie metalliche – che, sorretta con la mano del suonatore alla sua sommità viene fatta roteare provocando la percussione dei metalli sul legno e la conseguente generazione del goffo e caratteristico rumore.

All’ora prestabilita (Ave Maria mattutina, Angelus di Mezzogiorno, Ave Maria serotina, orari delle celebrazioni), il campanaro, anzichè suonare le campane, si aggirava per i vicoli del paese agitando la dròlå. Su alcuni campanili, tra cui quello di Rivolta, ve ne era montata una di grandi dimensioni che, azionata con una manovella, produceva un suono talmente fragoroso da essere udito in tutto il borgo. E qualcuno ricorda anche la consuetudine per il campanaro di accompagnare il suono del rumoroso strumento musicale anche dalle urla che comunicavano il tipo di avviso: Mèsdì, Ave Maria, Via Crùcis, Benedisiùn.

Il famigerato suono della dròlå ed il suo collegamento con i giorni del lutto messianico e con l’esperienza della sua voce stridula e quasi insopportabile, è ben radicato anche nell’immaginario collettivo. Nel repertorio dei detti dialettali, a Rivolta d’Adda si trova un’espressione che richiama lo strano strumento musicale in riferimento alla definizione di una persona alla quale si attribuisce una fama legata ai suoi discorsi tanto fragorosi quanto insignificanti: ‘l gà la bùcå che par ‘na dròlå.

La consuetudine di legare le campane è tuttora rispettata – anche perchè prescritta dalle norme liturgiche della Chiesa cattolica – mentre quella di suonare la dròlå è quasi del tutto andata perduta (purtroppo lo è anche a Rivolta d’Adda).

Tutte queste pratiche, apparentemente anacronistiche se non addirittura banali, sono ricche di significato e si pongono come veri e propri segni caratterizzanti di nuclei fondanti il carattere di una comunità, abituata per secoli a camminare nel solco di una tradizione condivisa.

Ivan Losio

Nelle foto: alcuni tipi di dròlå.

Nella foto: le corde delle campane legate in segno di lutto.

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